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domenica 14 novembre 2010

Il Giornale scopre le corporazioni

Questo articolo è stato scritto dopo la sospensione per tre mesi di Feltri da parte dell'Ordine dei Giornalisti
La domanda è: quanto di strumentale c'è in questo articolo che è condivisibile al 100%?

È ora di finirla con l’Ordine unico
di Carlo Lottieri

Queste strutture professionali devono farsi concorrenza e non possono mettere in discussione unilateralmente il diritto a lavorare. Si tratta di camarille ereditarie, viziate dal nepotismo e per i giornalisti usano il bavaglio

A ben guardare, nell’Italia che settant’anni fa cancellò la Camera dei deputati per sostituirla con quella dei Fasci e delle Corporazioni, gli ordini contavano assai poco. A decidere tutto erano Mussolini e i suoi, e la retorica corporativa era solo il maldestro tentativo di camuffare un regime dittatoriale, fingendo di farne il superamento di capitalismo e socialismo.


Ma quello che nel Ventennio era un progetto, oggi è una realtà, dato che siamo in larga parte prigionieri di apparati (dagli ordini dei notai a quelli dei farmacisti) determinati a difendere le loro rendite parassitarie. Anche se da più parti si ripete la tesi secondo cui saremmo vittime della globalizzazione più selvaggia, nei fatti il Paese è nelle mani di camarille ereditarie: dei figli dei figli, dei nipoti dei nipoti, i quali bloccano la strada a chi vuole lavorare onestamente e, nel caso dell’ordine dei giornalisti, giungono perfino a utilizzare il bavaglio.

Nelle società libere le cose vanno diversamente, dato che la libera iniziativa è tutelata. In una delle più antiche Costituzioni d’America, quella del Maryland, si legge che i monopoli sono «odiosi e contrari ai principi del commercio», ma larga parte della cultura anglosassone è avversa all’idea che qualcuno possa sbarrare la strada a chi vuole intraprendere, scrivere, commerciare, patrocinare e via dicendo.

Ordini e albi devono necessariamente scomparire? Non è detto. È possibile infatti che essi trovino una loro giustificazione, ma senza mettere in discussione il diritto a lavorare. Per avere ordini legittimi, in poche parole, bisogna che essi siano in concorrenza: l’associazione degli avvocati A deve competere con l’associazione degli avvocati B, certificando la qualità dei propri membri di fronte al pubblico. Le strutture corporative e monopoliste della situazione italiana, invece, rappresentano uno scandalo alla luce del sole.

Purtroppo, però, andiamo di male in peggio.

La contro-riforma delle professioni liberali che il governo sta per far approvare si muove nella direzione contraria a quella che andrebbe auspicata e gli argomenti usati da quanti difendono i privilegi di casta sono sempre i medesimi. Ad esempio, ora che si stanno per reintrodurre i minimi tariffari per gli avvocati (a danno della libertà contrattuale, ma anche a scapito degli interessi dei clienti e dei giovani avvocati), la tesi dell’ordine è che questo sia importante a «garanzia della qualità della prestazione professionale». Non ha il minimo senso, ma non fa nulla.

Al ceto dirigente italiano, d’altra parte, la libertà non piace proprio. Basti pensare che nonostante la Costituzione italiana (all’articolo 21, comma 1) dichiari espressamente che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», i vincoli e le limitazioni all’esercizio dell’attività giornalistica imposti dall’ordine dei giornalisti continuano a essere tollerati.

In questo quadro complessivo, aspettiamoci ora che perfino il ritorno della censura trovi i suoi paladini. Ci sarà di sicuro qualcuno pronto a sostenere che chiudere la bocca a Vittorio Feltri, oggi, e a qualche altro, domani, può essere un modo per proteggere la purezza dell’informazione. I liberali hanno sempre pensato che fosse il pluralismo delle voci dissonanti a garantirci al meglio, ma ormai prevale l’idea di una società organizzata dall’alto. Perché a difesa delle corporazioni non ci sono solo le rendite dei notabili di Stato, ma un’intera ideologia che punta a rafforzare il potere.

Non dimentichiamolo: siamo dominati da oligarchie che si ritengono autorizzate a tassarci e regolamentarci a loro parere. Di continuo ci dicono cosa possiamo fare a casa nostra e perfino quando vogliamo costruire una cuccia per il cane dobbiamo chiedere una «concessione». La scuola è nelle loro mani e così la previdenza, la sanità e tantissimi altri settori. In fondo, i capintesta delle corporazioni sono solo un’appendice di questo apparato e non stupiamoci se ogni tanto fanno vittime.


Gli ordini sono organizzazioni di dominio: punto e basta. Ci sarà qualcuno che, dinanzi a una situazione tanto degenerata, troverà la forza per alzare un po' la testa?

venerdì 22 ottobre 2010

Obiezione di coscienza e "captatio benevolentiae"

Potrei parlare di “captatio benevolentiae” commentando le numerose polemiche dei mesi scorsi circa la possibilità negata al farmacista di esercitare il diritto di obiezione di coscienza. Potremmo discutere sino all’infinito se si tratta veramente d’interruzione di gravidanza quando viene assunta la cosiddetta “pillola del giorno dopo” e dovremmo approfondire meglio se la spedizione di una ricetta redatta da un medico possa o meno configurarsi per il farmacista come intervento attivo.
Tuttavia, nel Movimento Nazionale Liberi Farmacisti la libertà dell’individuo è sacra, così come lo sono i suoi diritti e doveri.
Noi riteniamo che al farmacista debba essere garantito il diritto di esercitare obiezione di coscienza. Parimenti, questo diritto deve essere negato alla farmacia già detentrice di un’esclusiva e concessionaria di un rapporto privilegiato con lo Stato di monopolio. La farmacia non può rifiutarsi di consegnare farmaci come il “levonorgestrel”, pillola del giorno dopo, perché in questo modo lederebbe gravemente un altro diritto, a nostro avviso sacro: quello del paziente di ottenere il farmaco.

Due dei progetti di legge in discussione in Parlamento (De Lillo e Spadoni Urbani) rispondono a quella “captatio benevolentiae” di cui accennavo prima, entrambi riconoscono solo un diritto, quello dell’obiezione di coscienza, non risolvendo le problematiche conseguenti e rimandando le relative soluzioni alla Pubblica Amministrazione (Regioni, autorità sanitarie ecc.).
Troppo comodo.

Il terzo progetto (D’Ambrosio Lettieri) apparentemente coniuga i due diritti, quello del farmacista che vuole esercitare il diritto di obiezione di coscienza e quello del cittadino che vuole vedersi consegnato il farmaco prescritto nei tempi necessari. Nella pratica però nulla dice circa cosa potrebbe accadere durante i turni (diurni e notturni) e soprattutto ignora un fatto fondamentale: i principali episodi di rifiuto a consegnare “la pillola del giorno dopo” non sono venuti da singoli collaboratori di farmacia, ma dai titolari delle stesse.
Il disegno di legge non risolve questo aspetto semplicemente perché non può farlo: le farmacie non possono rifiutarsi di consegnare la pillola del giorno dopo.

Intervento del Presidente del MNLF Vincenzo Devito a parlamento salute (http://www.parlamentosalute.it/) sull'obiezione di coscienza - OTTOBRE 2010

lunedì 27 settembre 2010

A proposito di liberalizzazioni. Per tornare a cose concrete

Ripreso da Libertiamo.it (http://www.libertiamo.it/)
di Pierpaolo Renella

Il recente rapporto autunnale del Centro studi di Confindustria ha rilanciato il tema della libertà economica in Italia. “L’ossessione degli imprenditori per la crescita deve diventare l’ossessione di tutto il paese”, è stato lo slogan più gettonato in sede di presentazione del rapporto. E non c’é crescita senza riforme. E non c’é riforma vera che non incida sui ritardi competitivi del sistema, aggiungiamo noi.
“Le liberalizzazioni da sole aumenterebbero la produttività del 14,1%”, è uno dei messaggi più significativi dell’analisi compiuta in Viale dell’Astronomia. Senza entrare nel merito dei numeri e delle metodologie impiegate, forse varrebbe la pena di chiedersi: cosa frena i processi di liberalizzazione? Quale potrebbe essere il modello più adeguato e quali gli eventuali limiti intrinseci di un pur seria e convinta azione riformatrice sul piano della diffusione della concorrenza?

Il primo argomento è il più semplice ma ha il pregio di mettere in evidenza la potenzialità bipartizan di un tema politico come quello delle progressiva riduzione del peso dello Stato e dei vincoli-coercizioni-restrizioni nello svolgimento dell’attività economica.

Nessun soggetto politico responsabile può negare che, in un sistema in cui gli operatori economici sono liberi di competere, aumentino il PIL pro-capite e le attese di vita della popolazione; si riducano la corruzione, i pesi e costi della burocrazia e la spinta inflazionistica; e si favorisca il riequilibrio della finanza pubblica, tanto per citare solo alcuni dei principali aspetti quantitativi della libertà economica. Ma se i vantaggi sono evidenti e sostanziali, perché mai il percorso, da sempre, è tortuoso? La ragione risiede nella natura del rapporto costi-benefici. I vantaggi delle riforme ricadono su aree diffuse e indistinte di beneficiari (i consumatori, i contribuenti, le aziende), mentre i loro costi insistono su categorie ben delimitate, con rendite di posizione radicate e consolidate: gestori di servizi di pubblica utilità, burocrati, professionisti, tassisti, farmacisti, aziende monopoliste e via dicendo. Queste categorie, al solo sentir parlare di dinamiche competitive, non esitano a mobilitarsi in nome della difesa dei privilegi e spesso la loro azione di lobby paralizza la spinta riformatrice, con ricadute allarmanti sul sistema: molte aziende smettono di investire preferendo muoversi sul terreno della pressione (o della corruzione) politica.

Sul come procedere, l’evoluzione competitiva e della regolamentazione sono strettamente correlate alle caratteristiche dei settori interessati e ha poco senso arrovellarsi nella scelta tra un percorso “ripido e rapido” e un processo più soft, dove statalismo e dirigismo verrebbero “logorati” ai fianchi, senza assalti frontali. La liberalizzazione è Una, ed è efficace solo se integrale (e integrata, ad esempio, da una politica industriale al passo con i tempi).

Altro è chiedersi, in presenza di monopolio naturale, quale sia il percorso regolatore più adeguato a raggiungere risultati efficienti. O individuare gli strumenti idonei a rendere attrattivi per gli investitori privati i mercati potenzialmente concorrenziali (ad esempio, operando sulle infrastrutture o mettendo in azione la leva degli incentivi verso le tecnologie avanzate). Problemi non semplici la cui risoluzione presuppone l’esistenza di un disegno prospettico, di un master plan che vada oltre la quotidianità politica. In linea di principio, se è innegabile che le regole servano esse stesse ad evitare distorsioni della dinamica di mercato (è la ragion d’essere dell’Antitrust), va tenuto a mente che i regolatori non sono infallibili e possono talvolta burocratizzare eccessivamente e ostacolare seriamente l’attività economica.

Negli ultimi 15-20 anni, lo Stato italiano ha ceduto (secondo alcuni ha “svenduto”) quote di capitale di imprese pubbliche per circa 150 miliardi di euro, senza effetti significativi sulla riduzione del debito pubblico. In alcuni casi ha privatizzato senza liberalizzare i settori e i servizi nei quali le imprese operavano; al monopolio legale pubblico è semplicemente subentrato quello privato (vedi Autostrade), con pochi vantaggi sostanziali per i consumatori e impatto minimo sullo sviluppo economico. I risultati parziali e modesti in termini di promozione della libera concorrenza hanno indirettamente favorito il rilancio della tesi ideologica secondo cui la proprietà pubblica del capitale offrirebbe in generale maggior garanzie di efficienza, con tutto quel che ne consegue sul piano dell’agire (o del non agire) politico dei governi. I sostenitori di questa tesi dimenticano (o fingono di dimenticare) che spesso chi compra rientra nella sfera d’influenza di chi vende e, comunque, che lo stato e gli enti pubblici, anche con partecipazioni di minoranza continuano ad esercitare il controllo sulle aziende privatizzate.

E’ in atto in Italia la riproposizione del modello statalista? Qualcuno l’ha individuata, di recente, nel tentativo di ripubblicizzazione del Mediocredito Centrale. Di sicuro c’e’ una situazione di stallo che va sbloccata. Il problema è come. Se si decide di volare basso, basterebbe riaprire il dibattito sulla privatizzazione di Eni, Poste, Enel, Finmeccanica e Rai e di tante aziende municipalizzate. Un film già visto, che forse non vale il prezzo del biglietto. In caso si voglia provare a volare alto, bisognerà trovare gli strumenti più efficaci per perseguire un livello minimo di efficienza economica nei settori interessati, senza il quale è difficile ottenere gli effetti di ogni liberalizzazione che si rispetti: riduzione delle tariffe, maggior diffusione e miglioramento della qualità dei servizi e incremento degli investimenti dei privati. Si potrebbe partire proprio dal Mezzogiorno, dove oltre i tre quarti dei comuni ricorrono alla gestione in house dei servizi pubblici e dove, solo nel settore idrico, sono stimati investimenti per 60 miliardi di euro nei prossimi trent’anni.

domenica 18 luglio 2010

Fazio: il ministro più corporativo che c’è

Classe 1944 è medico laureatosi a Pisa nel 1968. Già professore ordinario di diagnostica per immagini e radioterapia presso la facoltà di Medicina e chirurgia Milano-Bicocca, è stato il primo in Europa ad aver istallato una PET (Positron Emission Tomography) all’Hammersmith Hospital di Londra.

Ingaggiato nell’ultimo Governo Berlusconi prima come sottosegretario al Lavoro, Salute e Politiche sociali, diventa Vice Ministro con delega alla salute nel maggio 2009 e quindi ministro quando il ministero è re-istituito nel dicembre 2009.

Criticato dalla Corte dei Conti per aver sottoscritto con la Novartis un contratto di fornitura di 24 milioni di dosi di vaccino a 184 milioni di euro, ritenuto troppo vantaggioso per l’azienda, non ha mai mancato di nascondere le proprie simpatie per lobby e corporazioni.

Lobby e corporazioni che all’atto della sua investitura lo avvicinano immediatamente: obiettivo porre la parola fine sulle odiate liberalizzazioni di Bersani.
Mentre in Parlamento va a rilento il disegno di legge Gasparri_Tomassini che in buona sostanza si ripromette di far chiudere le oltre 3000 parafarmacie aperte, Fazio diventa “strada alternativa”, ma privilegiata, per tentare di accorciare i tempi.

Il vecchio sistema dei tavoli di concertazione, ove tutti sono invitati e nessuno conta quanto rappresenta, è sempre buono per depotenziare i nemici. Ecco che allora Fazio convoca, con “l’ausilio” e il fraterno appoggio del Presidente della FOFI un “tavolo” sulle parafarmacie, dove, tra moniti (“Nessuno pensi di aprire da qui alla fine dell’anno tante nuove farmacie perché la legge sarà retroattiva”) e calorose “pacche sulle spalle” agli amici, viene montata la più colossale presa in giro degli ultimi anni: il riassorbimento delle parafarmacie nel servizio farmaceutico nazionale.
Cosa questo significhi tutti si guardano bene dal specificarlo, ma tant’è che chi perde il proprio tempo a guardare in cielo volar gli asini c’è sempre e qualcuno pensa ad una trasformazione delle parafarmacie in farmacie.
Non importa se tutto è inverosimile, il gioco delle parole dette e non dette, dei sussurri a mezza bocca è troppo allettante per non credere alla favola di “Corte”.

Nel frattempo il Ministro si mette al lavoro e con l’accorto appoggio dei “fantasisti” della farmaceutica s’inventa “la farmacia dei servizi”, “l’Eldorado” dei titolari di farmacia italiana, la “svolta” epocale per la sanità pubblica, la “chiave di volta” per la tutela della salute pubblica. L’idea è semplice, quanto vecchia, fare della farmacia italiana un centro di distribuzione di servizi (analisi prima istanza, prenotazione visite, consegna referti ecc.ecc.) per il S.S.N.

Un solo piccolo problema: con quali soldi?

Poco importa al Ministro se oggi più di un terzo della popolazione ha più di 65 anni e domani diventerà un quarto, poco importa d’ospedali fatiscenti, delle liste d’attesa, dei deficit cronici e dell’ingerenza sempre più pervasiva della politica.
No lui si occupa di farmacie e cravatte.

Confusione nei programmi e nelle idee, un esempio il 7 luglio è la giornata nazionale contro la contraffazione dei farmaci, in tutti i congressi si parla di regolamentare la vendita on-line e di fare attenzione al commercio. Ebbene, cosa fa il nostro ministro, di ritorno da Bruxelles ove aveva partecipato alla riunione su questo tema dei ministri della salute UE, se ne esce con un’inversione a 360° della posizione italiana, dicendosi possibilista per la vendita on-line dei farmaci d’automedicazione. Reazioni arrabbiate il giorno stesso e quello successivo, proprio mentre il Governo stava per approvare una manovra che toccava il margine delle farmacie (poi notevolmente ridimensionato) e il ministro si affretta a specificare che naturalmente solo le farmacie potranno praticare questo nuovo “business”.

Il colpo di genio però arriva nel luglio di quest’anno.
Il Ministro Alfano da vero “cavaliere” dei liberisti italiani ha intenzione di riformare gli ordini professionali, nel senso di aumentargli il potere corporativo naturalmente.

Bene il nostro Ministro non può stare a guardare: chiede agli Ordini dei medici, veterinari, farmacisti e odontoiatri di preparargli una legge delega da inserire nel progetto.
E questi lo fanno.
Risultato: gli ordini sono organi sussidiari dello Stato con autonomia patrimoniale, non più soggetti a controlli.
Niente di specifico sui sistemi elettorali per eleggere i vertici, niente sulle antidemocratiche procedure d’elezioni e sulla rappresentanza proporzionale ai voti presi.
Niente sulle regole che di fatto consentono a 4/5 ordini di eleggere i veritici.
Solo un richiamo alla rappresentanza delle minoranze organizzate. Il solito tavolo inutile per salvare la forma.

Un’ultima cosa: il ministro Tremonti sulle pensioni dopo i 40 anni ha candidamente ammesso che non si trattava affatto di refuso, ma di un vero e proprio progetto tentato dal Governo. Faccia lo stesso il ministro Fazio e dica chiaramente che non si trattava di fantasie quanto riportato nelle bozze del disegno di legge portato in consiglio dei ministri, ed ammetta che l’intenzione di bloccare le parafarmacie e le nuove aperture c’era, eccome se c’era.

Per non stare a guardare: http://www.mnlf.it/focus.php?id=20

sabato 19 giugno 2010

Dove è finito Robin Hood

Manifestazione del Pd contro la manovra. Palaeur, Roma

Bersani sul Ministro dell'economia Giulio Tremonti: "Voglio vederlo Robin Hood... che fine ha fatto?". Qualcuno dalla platea suggerisce: "Si è perso". Bersani chiosa: "Sì, si è perso nella foresta di Sherwood. Parla di liberalizzazioni, ma perché non discute della nostra proposta? Perché uno che vuole aprire una parafarmacia deve aspettare la riforma dell'articolo 41 della Costituzione? Vediamo cosa fa Robin Hood".
"Dice che bisogna fermare la globalizzazione... Provaci tu! Come vogliamo fare? Mettendo le ampolle di Bossi nel Pacifico? O con la formula Dio-patria-famiglia?".

lunedì 7 giugno 2010

Imprese e burocrazia. Liberi tutti, dalla realtà

da http://www.epistemes.org/


Il ministro dell’Economia ed il premier nei giorni scorsi hanno lanciato l’ipotesi di una profonda liberalizzazione dei regimi autorizzativi alla creazione e gestione d’impresa, da attuarsi addirittura (ed incomprensibilmente) con un intervento sulla prima parte della Costituzione, segnatamente l’articolo 41. Pare proprio che, di rodomontata in rodomontata, l’esito sia destinato a non variare. Vediamo il perché.

In primo luogo, l’idea è un vecchio cavallo di battaglia tremontiano, o almeno del primo Tremonti, quello del libro “Lo stato criminogeno” e del Libro Bianco sul Fisco del 1994; come noto, quel Tremonti è persona diversa da quella che durante l’attuale crisi finanziaria ammoniva che è tempo di dire basta al “liberismo sfrenato” (che in Italia non è mai esistito, ma fa lo stesso), e che lo stato “deve tornare a fare lo stato”. Oggi, di fronte ad una crisi drammatica malgrado le quotidiane professioni di ottimismo, e ad un paese che non intende crescere, ingabbiato com’è da una legislazione pervasiva ed occhiuta oltre che da una classe politica drammaticamente inadeguata ai tempi, si torna a ipotizzare il “liberi tutti”. Sfortunatamente, lo si fa guardando più agli effetti speciali che alla sostanza.

Il riferimento ad un articolo della prima parte della Costituzione è già un notevole passo falso. Cosa andrebbe emendato, nel caso? Siamo ragionevolmente certi che non andrebbe soppresso il secondo punto di quell’articolo, per il quale l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana“. E quindi, che resta? Il terzo: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali“. Ancora più generico, indeterminato ed indeterminabile. Come è possibile modificare un principio costituzionale generale, e per ciò stesso astrattamente “alto e nobile”, oltre che fortemente interconnesso ad altri articoli della Carta, ai soli fini di una modifica della legislazione ordinaria sui regimi autorizzativi allo stabilimento e gestione della continuità d’impresa resta un mistero. E soprattutto, quale sarebbe il senso di una modifica costituzionale (che peraltro richiede molto tempo) per applicare un regime transitorio della durata di “due-tre anni“?

Forse il problema sta nel famigerato Titolo V della Costituzione, quello che ha tentato di definire le materie di competenza esclusiva e concorrente tra Stato da una parte e regioni dall’altra? Ma se le cose stanno in questi termini si dovrebbe agire là, cioè sulla seconda parte della Carta, non certo sulla prima. Il problema è la potestà legislativa concorrente tra stato e regioni, così come disciplinata dall’articolo 117 della Costituzione. Esiste, ad esempio, una legislazione concorrente riguardo, tra le altre cose, tutela e sicurezza del lavoro. Vogliamo deregolamentare questa? Non servirebbe a nulla, diciamolo subito, perché comunque lo stato non potrebbe accettare situazioni regionali “vietnamite”, ma se la risposta è affermativa basta agire sull’articolo 117.

Pare che il problema della resistenza alla liberalizzazione economica siano improvvisamente diventate le regioni, stataliste e frenatrici. Ma se le cose stanno davvero in questi termini e se occorrono leggi nazionali per sbloccare la forza della conservazione localistica, a che serve agognare il federalismo, non solo quello fiscale? Naturalmente queste obiezioni neppure scalfiscono le granitiche certezze della Lega, che ha votato ad inizio legislatura l’abrogazione della maggiore imposta federalista presente nel nostro ordinamento fiscale, e che si accinge a votare una manovra correttiva che riduce ulteriormente l’autonomia impositiva locale. Ricordate il famoso “piano casa” governativo, quello che doveva servire a ricavare “un locale in più per i figli”? E’ fallito, come ammette lo stesso Tremonti. Sempre colpa delle regioni? Ma non si era detto che, al crescere del numero dei governatori del centrodestra, ci sarebbe stato un effetto virtuoso di trasmissione dal centro alla periferia degli impulsi deregolatori? Pare di no, se qualcuno nel Pdl questo benedetto “locale in più per i figli” vuol farlo rientrare dalla finestra di un condono, l’ennesimo. L’Italia è una repubblica fondata sullo stato di necessità, si direbbe. Certamente fondata sull’improvvisazione e sull’assenza di visione sistemica, l’unica skill richiesta al legislatore, oggi.

Tornando e restando al nuovo spin tremontiano, come si concilia questa improvvisa conversione ideologica sulla via della libertà d’iniziativa economica con la produzione legislativa di una maggioranza che sta demolendo sistematicamente la libertà d’impresa nel settore di farmacie e parafarmacie e sta aumentando drammaticamente la “riserva” di attività a favore degli iscritti all’Ordine degli avvocati, e non solo? Non è dato sapere. Ancora, il ministro per la Semplificazione normativa, Roberto Calderoli, quello a cui brillano gli occhi davanti a pire di leggi ormai da tempo disapplicate, si dice pronto a preparare una legge per “aprire un’impresa in un giorno”. Ottimo, anche se tardivo e già sentito da almeno un quindicennio. Però il problema non è l’apertura, ma il funzionamento. A che mi serve aprire un’impresa in un giorno se poi devo venire perseguitato con accertamenti successivi, giacché i medesimi verrebbero spostati a valle del fatidico startup? E a che mi serve aprire un’impresa in un giorno se non riesco a tutelare i miei crediti, con una giustizia civile in stato comatoso? Le metriche, in quest’ultimo caso, non accennano a migliorare in nessun distretto giudiziario: la tutela dei diritti di proprietà in questo paese resta affidata al caso.

Ancora: il premier denuncia “l’oppressione fiscale”. E noi con lui, almeno per quelli che non sono in grado giocare con l’Iva. Ma, parlando di oppressione fiscale, ha provato a leggersi quanto è previsto al riguardo nella manovra correttiva? L’impressione è che governo e maggioranza facciano due parti in commedia, stante l’assenza di un’opposizione senziente. La strada per le riforme non passa per una qualche improbabile “rivincita” ideologica sulla prima parte della Costituzione, ma sulla legislazione ordinaria e, in negativo, sull’assenza di grandi scelte dall’inizio della legislatura. Perché “c’è la crisi, ma quando finirà vedrete quanto faremo”. E questa crisi, che appare e scompare a seconda delle convenienze, ci lascia in eredità l’assoluto immobilismo di un esecutivo che continua a non realizzare che questo paese è in svantaggio strutturale sul resto dei paesi con i quali ci confrontiamo. Ma la narrativa resta sempre quella: è colpa dei sindacati, dell’opposizione, della Costituzione che non ci permette di lavorare. La mitologia dell’”agente ostruente esterno” pare suonare ancora convincente, alle orecchie della maggioranza dell’elettorato. Non a quelle dei mercati, però.

martedì 25 maggio 2010

Quei tagli sull'agenda della competitività

di Giorgio Barba Navaretti
pubblicato sul Sole 24ore

L'equilibrio futuro dell'area dell'euro dipenderà in buona misura dal commercio estero. Solo la capacità diffusa di produrre ed esportare beni e servizi può determinare la coesione di lungo periodo dei paesi membri. Per questo motivo il patto di stabilità non può limitarsi a rimettere i conti in ordine, a estendere la Schuldenbremse tedesca, il vincolo costituzionale ai deficit pubblici, ma deve aprire a riforme strutturali che rafforzino la competitività complessiva dell'Unione e il rilancio della crescita della regione.

Parlare di mercato del lavoro, liberalizzazioni delle professioni, investimenti in capitale umano, riforma della burocrazia e supporto alle imprese mentre Atene brucia e l'euro scivola potrebbe apparire paradossale, ma così non è.
La radice del progetto dell'euro non è solo monetaria ma affonda nell'economia reale, è complementare al mercato unico: ridurre le barriere agli scambi nell'area. E la crisi dell'euro deriva da una diversa capacità competitiva dei paesi membri, non solo da una gestione malaccorta dei conti pubblici. Grecia e a seguire Portogallo e Spagna hanno deficit molto elevati dei conti con l'estero. L'aggiustamento di questi squilibri non si risolve solo rilanciando la domanda tedesca (cosa che comunque Berlino ha poca intenzione di fare), ma rafforzando la competitività dei paesi in deficit. Le misure fiscali varate fin qui lo fanno indirettamente attraverso la deflazione. Peccato che l'Europa abbia assolutamente bisogno di crescere. Le riforme strutturali per il rafforzamento della competitività sono dunque una via alternativa (o in alcuni casi complementare) alla mortificante compressione di prezzi e salari.
Ci sono almeno due buone ragioni per consolidare la dimensione europea di queste politiche. La prima è evitare di pestarsi i piedi. All'interno dell'area dell'euro, principale mercato di destinazione di tutti i paesi membri, se tutti non crescono più rapidamente, le esportazioni dell'uno vanno a scapito di quelle degli altri. La crescita delle esportazioni delle nazioni in deficit si tradurrebbe in un gioco a somma zero, spinto da politiche nazionali di tipo beggar-my-neighbour, ossia dannose per gli altri paesi.

La dimensione nazionale delle politiche diventa soprattutto rilevante nel momento in cui ci sono poche risorse, la crescita è scarsa e nonostante la necessità di exit strategy fiscali, i soldi del contribuente sono necessari per sostenere il sistema produttivo nazionale. La ricerca di nuova competitività post-crisi ha riportato alla ribalta l'intervento dello stato. L'esempio migliore di tentativo di rafforzare il sistema produttivo in chiave strettamente nazionale è la Francia, che ha varato una politica industriale d'indiscutibile grandeur, con obiettivi da dirigismo dei tempi perduti: un aumento del 25% della produzione industriale entro il 2015, una crescita di almeno due punti percentuali della quota nel valore aggiunto industriale europeo, il ritorno a una bilancia commerciale positiva, sempre nel 2015.

Certo, ogni nazione deve fare i conti con il saldo della propria bilancia dei pagamenti. Il dirigismo francese è la controparte da paese in deficit del virtuosismo fiscale da paese in surplus della Germania. Strategie opposte, entrambe non cooperative: appunto, beggar-my-neighbour, soprattutto se la domanda non riparte.
La seconda ragione per un coordinamento delle politiche strutturali è il mercato unico. Come ben messo in evidenza dal rapporto Monti, questo è un immenso patrimonio del progetto europeo, che ha ancora ampio spazio per aumentare.

Le imprese crescono in primo luogo sul mercato domestico e poi su quello dell'export. Il mercato unico è appunto un immenso mercato simil-domestico. Ma le barriere tra paesi, soprattutto nel settore dei servizi e nei sistemi di regole, dal mercato del lavoro a quello finanziario, ancora rallentano gli scambi. Il coordinamento delle riforme strutturali deve favorire l'abbattimento di queste barriere.
Politicamente è una strada ardua. Integrazione e mercato sono oggi parole impopolari in qualunque agenda elettorale. Ma perseguire solo il rigore fiscale e la deflazione è una ricetta sicura per allontanare definitivamente gli elettori dall'Europa.
Il commercio e l'aggiustamento degli squilibri dei conti con l'estero sarà un gioco a somma zero solo se l'economia non cresce. Rafforzare la competitività del Vecchio continente coordinando le politiche strutturali è l'unica via per riprendere ad allargare la torta per tutti.

lunedì 10 maggio 2010

Categoria spaccata, basta con i privilegi

Lo speciale del Sole 24ore Sanità dedicato a Cosmofarma 2010 pubblica un intervento del Presidente del MNLF

In Italia le “arti” o corporazioni nacquero agli inizi del XII secolo, in pieno medioevo. Divise in “arti maggiori” (mercanti, banchieri) e “arti minori” (artigiani e commercianti), si suddividevano ulteriormente in tre classi: Maestri, Apprendisti, Garzoni.
La corporazione promuoveva l'interesse dei propri membri proteggendoli dalla concorrenza di altre città e da quella dei professionisti non appartenenti alla corporazione, monopolizzando il commercio, stabilendo orari uniformi per tutte le botteghe che producevano gli stessi manufatti e paghe uguali per i lavoratori che svolgevano la stessa attività.
Malgrado questo ferreo controllo, le corporazioni nel rinascimento erano quasi scomparse, a farle ritornare ci pensò il fascismo che, eliminando di fatto i sindacati, modulò proprio dal medioevo la nuova struttura sociale del lavoro.
Nell’anno domini 2010, in piena crisi, c’è chi pensa di rilanciare l’economia ritornando al XII secolo.
E’ di questo che ha bisogno il Paese, è di questo che ha bisogno la nostra categoria?
Domanda che è bene porre con maggiore frequenza, che gli stessi vertici della categoria abbiano in mente quando operano scelte che riguardano tutti i farmacisti italiani.
Nei giorni scorsi il Movimento Nazionale Liberi Farmacisti ha guidato una manifestazione a Roma dal titolo: Farmacista alza la testa! L’intento era quello di far sentire la voce di chi ritiene di non essere affatto rappresentato in questo momento. La voce di chi avverte in maniera nitida che si sta lavorando contro e non per lui. La maschera bianca indossata sul volto è il simbolo di questa sensazione d’anonimato davanti alle Istituzioni, sentirsi come dei fantasmi.
Gli esempi sono palesi e molteplici.
Qualcuno ha sentito alzarsi alta e forte la voce contro i licenziamenti degli informatori medico scientifici con la stessa forza con cui si sono difese le farmacie? Noi no.
Qualcuno ha visto affrontare con la dovuta serietà il problema del C.C.N.L. dei dipendenti di farmacia e il relativo spostamento nel comparto sanità così come si è lavorato per ampliare i servizi in farmacia? Noi no.
Qualcuno si è forse accorto di come i farmacisti ospedalieri siano usati strumentalmente un giorno sì e l’altro pure quando serve fare bella figura, per poi accusarli in maniera plateale e, lasciatecelo dire, anche “rozza”, d’essere responsabili di un ipotetico spreco negli ospedali? Noi sì.
Che dire poi del caso delle parafarmacie e dell’aperta opposizione che la FOFI sta facendo alle liberalizzazioni del 2006. E’ forse la Federazione degli Ordini un sindacato? Che la Federfarma si opponga a modifiche contrarie ai propri interessi o cerchi di restaurare quanto perso è assolutamente legittimo. Che lo faccia la FOFI è ampiamente opinabile, se non contrario ai propri doveri istituzionali che sono sempre quelli di rappresentare tutti i farmacisti italiani. I numerosi “giochetti” di dividere chi si oppone a questo stato di cose e al conservatorismo dilagante falliscono miseramente, compresa la storiella della pseudo-sanatoria, alimentata nei corridoi del Senato proprio da chi ora si dichiara fermamente contrario.
E ci si copre di ridicolo pretendendo d’imporre il nome a questi esercizi, empori sono certe farmacie in cui c’è di tutto tranne che il farmaco, come quelli per il dolore acuto.
E’ necessario allora chiedersi a chi giova questo stato continuo di conflittualità, dove si approfondisce di giorno in giorno la spaccatura verticale dei farmacisti italiani. Una spaccatura tra chi gode di tutti i vantaggi e chi viene umiliato costantemente nelle proprie speranze e nei propri sogni.


Vincenzo Devito
Presidente MNLF

mercoledì 28 aprile 2010

Oggi con gli avvocati, domani con i commercialisti, i famacisti, i....

RIFORMA FORENSE: FINOCCHIARO, SI TORNI IN COMM.- SCONTRO TRA DUE VISIONI
(ASCA) - Roma, 28 apr - ''Quello che chiediamo a quest'aula e' che si torni ad esaminare questo testo sulla riforma forense in commissione. Qui si stanno scontrando due visioni opposte dell'ordinamento forense e dunque chiediamo un esame approfondito da parte della commissione, anche per evitare che su un testo gravato da 730 emendamenti, con votazioni che come abbiamo visto poc'anzi possono essere anche del tutto casuali, alla fine esca un obbrobrio nel quale nessuno di noi potra' riconoscersi''. Lo ha detto Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Pd al Senato, prendendo la parola in aula sull'ordinamento forense.

''Non vogliamo nasconderci dietro un dito - ha spiegato Anna Finocchiaro -. Qui si stanno scontrando due visioni opposte dell'ordinamento forense, stante la necessita' di riformarlo visto che la regolazione risale a 70 anni fa. Da una parte c'e' l'idea che occorra conservare e presidiare l'esistente, intendendo la modernita' solo come spostamento di poteri di organizzazione pubblica nelle mani del Consiglio nazionale forense, cioe' del sistema o della casta o corporazione che dir si voglia. Dall'altra parte chi pensa che la regolazione delle professioni, la liberta' di libera concorrenza, la promozione delle nuove generazioni possano essere quegli elementi di modernizzazione che possono consentire anche sotto questo profilo al nostro Paese di competere''.

''Questo naturalmente matura un giudizio politico sulla maggioranza e sulla sua volonta' di conservazione - continua la presidente dei senatori Pd - altro che modernizzazione, in uno dei settori piu' importanti della vita del Paese. E ci consegna invece delle opposizioni che vogliono consegnare all'Italia un sistema professionale, oggi con gli avvocati domani con i commercialisti, i farmacisti, i notai, che sia non solo aderente con quello che avviene nel panorama europeo, ma anche tale da smontare il potere della successione ereditaria e delle corporazioni, per consegnare nelle mani delle giovani generazioni gli strumenti per la loro crescita e per la crescita del Paese''.

''Il punto e' questo - ha concluso Anna Finocchiaro - ed e' un punto di principio e politico sul quale siamo secondo noi chiamati anche a tornare in commissione''.

martedì 27 aprile 2010

Due anni di governo: concorrenza e liberalizzazioni

da la Voce.Info www.lavoce.info
di Michele Polo e Fabiano Schivardi

Liberalizzazioni e promozione della concorrenza erano stati uno dei tratti più marcati del governo Prodi nella precedente legislatura. Il governo Berlusconi non ha seguito la stessa linea, pur rifacendosi, tra le sue diverse anime, anche a una componente liberale.Tra i suoi primi atti, la gestione della vicenda Alitalia e la creazione della cordata italiana Alitalia-Cai con la fusione tra compagnia di bandiera e Airone. Protagonista nella campagna elettorale del 2006 di una forte opposizione al progetto di acquisizione da parte di Air-France Klm in nome dell’italianità, una volta al governo, il centro-destra ha promosso una soluzione sotto molti punti di vista inferiore a quella francese: dal punto di vista del contribuente, che si è dovuto accollare circa 3 miliardi di debiti che sarebbero stati rilevati dai francesi. E dal punto di vista dei viaggiatori, ossia, in tema con l’argomento di questa scheda, sotto il profilo della concorrenza. La fusione tra Alitalia e Airone ha infatti creato situazioni di sostanziale monopolio su molte rotte interne, inclusa quella strategica tra Linate e Fiumicino. Per consentire il completamento dell’operazione, il governo ha sospeso temporaneamente i poteri dell’Antitrust nel valutare l’operazione.In questi ultimi due anni, inoltre, non sono state proseguite le liberalizzazioni nei servizi professionali, sui quali le “lenzualate” del ministro Bersani avevano predisposto un punto di partenza che richiedeva la dettagliata implementazione in ciascuno dei settori interessati. Nulla è invece successo, e gli ordini professionali hanno avuto buon gioco nel riportare la barra verso la difesa degli interessi di categoria. L’aspetto più marcatamente anti-competitivo riguarda la riforma dell’avvocatura, approvata dalla commissione Giustizia del Senato. Sono reintrodotte le tariffe minime, “inderogabili e vincolanti”. Sono vietati accordi fra cliente e avvocato che prevedano il pagamento di una parcella solo nel caso che la causa sia vinta (contingency fees). La pubblicità, seppur non vietata, viene fortemente regolamentata. Viene ampliata la riserva di attività degli avvocati nel campo della consulenza legale e nelle procedure arbitrali. L’esame di abilitazione diviene più oneroso, così come le condizioni di praticantato, senza riconoscere ai praticanti nessun diritto di compenso. Si ribadisce il divieto di esercitare l’attività organizzandosi in società di capitali. Nelle intenzioni del ministro della Giustizia Alfano, questo approccio sarà applicato a tutte le categorie di professionisti entro la fine della legislatura. Non solo non si liberalizza, ma si smontano i pochi provvedimenti riformatori fatti in Italia negli ultimi quindici anni, fondamentalmente le “lenzuolate” di Bersani.Scarsi i progressi per quanto riguarda la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, tema che aveva peraltro già trovato anche nella scorsa legislatura un fuoco di sbarramento trasversale. Più promettente, anche se nelle sue fasi preliminari, il provvedimento relativo all’affidamento ai privati della gestione dei servizi idrici.Criticabile anche l’introduzione di norme anti-scalata da parte della Consob, con la benedizione del governo, nella fase più acuta della crisi, motivata anche in questo caso con la difesa dell’italianità delle imprese quotate




martedì 6 aprile 2010

Farmacista, alza la testa

MANIFESTAZIONE PER IL RINNOVAMENTO DELLA PROFESSIONE

ROMA
18 APRILE 2010
ORE 11.00
PIAZZA MONTE CITORIO


Per la rinascita culturale, scientifica e morale delle professione di farmacista

Per il riconoscimento di pari dignità ed opportunità per tutti i laureati in farmacia

Per la rimozione degli ostacoli corporativi al libero esercizio della professione

Per la vendita dei farmaci non a carico del S.S.N. in esercizi diversi dalle farmacie

Per un trasferimento del C.C.N.L. dei dipendenti di farmacia dal settore commercio a quello della sanità e la possibilità di una carriera professionale

Per una modifica democratica delle norme elettive all’interno dell’ordine professionale che garantisca pluralità di rappresentanza e di espressione

Per una moralizzazione dell’esercizio della professione e il rispetto delle norme di dispensazione dei farmaci

Per nuove opportunità di lavoro nell’insegnamento e in tutti gli ambiti di lavoro ove venga dispensato il farmaco con particolare valorizzazione degli ambiti ospedalieri

Per il mantenimento dei livelli occupazionali degli informatori scientifici del farmaco

RADUNO: ore 10.30 - INIZIO: ore 11.00 - TERMINE: ore 13.00

INFO Pulmann organizzati
PIEMONTE/LIGURIA: ambrogio.sartirano@libero.it - Tel. 3395234900
FRIULI VENEZIA GIULIA/VENETO: marcespo64@hotmail.com - fiorella.levi@hotmail.it
Tel. 043166217
MARCHE - ABRUZZO: miriam.codina@libero.it - Tel. 3290373033
PUGLIA/BASILICATA: corrado.fronterre@gmail.com - Tel. 338.7236063 - 338.2044970 - 3478866063
INDICARE NOME E COGNOME - INDIRIZZO - RECAPITO TELEFONICO

sabato 27 marzo 2010

Manifestazione a Roma il 18 aprile

Farmacista, alza la testa!

Decisa la data della manifestazione per il rinnovamento della professione di farmacista e la ripresa delle politiche di liberalizzazione in Italia.

Si terrà a Roma il prossimo 18 aprile. Tutti i farmacisti che credono in una professione diversa, siano essi titolari di parafarmacia che farmacisti non titolari sono invitati a partecipare. Sarà una manifestazione all'insegna della rinascita della professione e delle politiche di liberalizzazione in Italia, per presentare proposte, ma anche per denunciare il clima di ostilità di un mercato ancora troppo dominato da corporativismi e monopoli. Un nuovo modo di fare la professione è possibile, ove rigore professionale si può coniugare con una maggiore democrazia all'interno del corpo ordinistico, ove per tutti debbono esserci pari opportunità e maggiori opportunità. Opportunità per chi decide d'intraprendere la libera professione con un proprio esercizio, ma anche maggiori possibilità di carriera per chi è dipendente con un'inquadramento diverso dall'attuale CCNL. Sarà innalzata la bandiera della questione morale nell'esercizio della professione, ma saranno richieste anche nuove occasioni di lavoro per i laureati in farmacia. Una laurea che ha molto da dare anche lontano dalla farmacia, vicino alla ricerca, all'insegnamento, alla consulenza.

Il Movimento Nazionale Liberi Farmacisti insieme all'Associazione Nazionale Parafarmacie Italiane e alla Federazione Esercizi Farmaceutici saranno gli organizzatori, ma i protagonisti saranno i farmacisti e tutte quelle componenti della società civile e delle altre professioni che vogliono mettere la parola fine agli interessi di parte per far ritornare a crescere il Paese e ridare la speranza a migliaia di laureati sino ad oggi sacrificati sull'altare del corporativismo.

lunedì 25 gennaio 2010

Parafarmacie penalizzate dai distributori intermedi

La Federazione Esercizi Farmaceutici, raccogliendo le numerose segnalazioni provenienti da tutto il territorio nazionale, denuncia lo stato di grave alterazione del mercato dei farmaci da banco provocata dal comportamento di alcuni distributori intermedi nei confronti delle parafarmacie.

A quasi quattro anni dall’approvazione del decreto Bersani e dopo condanne e pronunce dell’Antitrust ci sono ancora aziende che si rifiutano di fornire SOP e OTC agli esercizi di vicinato. In particolare il fenomeno più diffuso è quello d’imporre condizioni di fornitura che, di fatto, negano alle parafarmacie la possibilità di competere ad armi pari nel mercato. Contratti modificati unilateralmente dall’oggi al domani, margini di ricavo irrisori, pagamenti alla consegna o in tempi brevissimi, minimo d’ordine giornaliero e mensile, sono solo alcuni esempi di un rapporto da sempre difficile con i grossisti di farmaci. Tutte condizioni che non sono applicate alle farmacie o a quelle parafarmacie la cui proprietà afferisce ad un titolare di farmacia, determinando praticamente l’impossibilità per le parafarmacie autonome di competere ad armi pari.

Al fine di tutelare questi esercizi, ma anche i consumatori che risultano penalizzati da un minor livello di concorrenza è stata inviata una segnalazione all’Antitrust.

La F.E.F. ha anche inoltrato una nota all’Associazione che riunisce i distributori intermedi dei farmaci (A.D.F.) ricordando l’obbligo di legge per i distributori di rifornire anche gli esercizi di vicinato e richiedendo un intervento presso i propri associati. Registrando positivamente la volontà del Presidente dell’A.D.F. di evidenziare il malessere dei farmacisti titolari di parafarmacia presso i propri associati, la F.E.F. si augura che l’atteggiamento di chiusura nei confronti delle parafarmacie muti radicalmente e venga riconosciuta loro pari dignità.

domenica 17 gennaio 2010

Catricalà:difficile resistere alla forza delle corporazioni

"Fanno bene i consumatori a progettare di rivolgersi all’Arbitro di Bankitalia sulla commissione di massimo scoperto prima di agire con la class action”.
Così il presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato Antonio Catricalà commenta l'iniziativa annunciata dalle associazioni di consumatori Adiconsum, Adoc e Lega Consumatori. In una lunga intervista rilasciata a SKY TG24 Economia, Catricalà spiega: "Sulla commissione di massimo scoperto abbiamo avuto modo di lamentarci perché anche se dalla nostra istruttoria è emerso che le banche non hanno fatto illeciti antitrust, quello che la legge si proponeva, cioè sostanzialmente un calo dei costi per i risparmiatori, non è avvenuto".
In generale sulla class action il presidente dell'Antitrust ha detto che è "già un miracolo che l'abbiamo avuta" perché il clima generale non sembrava favorevole, anche se "con una limitazione nell'efficacia, che non è retroattiva e una sul risarcimento dei danni; però - ha sottolineato il presidente dell’Antitrust - ci siamo noi che possiamo punire con le sanzioni". Nella lunga intervista rilasciata a Sarah Varetto, Catricalà ha sottolineato le difficoltà dell’Antitrust nel "riuscire a sostenere la forza delle corporazioni" che si oppongono all'apertura del mercato. Le liberalizzazioni "non hanno subito l'accelerazione che noi avevamo auspicato – ha proseguito Catricalà.
Guarda l'intervista a SKYTG24