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giovedì 28 aprile 2011

Farmacista cambia contratto

Il Movimento Nazionale Liberi Farmacisti lancia una nuova iniziativa dedicata al personale laureato dipendente di farmacia privata.
Nel momento in cui diversi rappresentanti di vertice della categoria rivendicano giustamente il ruolo sanitario della professione di farmacista e con questo quello della farmacia a cui dovrebbero essere affidati nuovi ruoli a carattere strettamente sanitario, il MNLF ritiene che il C.C.N.L. commercio applicato ai dipendenti laureati che operano della farmacia privata sia in completa dissonanza con tale richiesta e in palese contraddizione con le reali mansioni svolte.
Valuta l'attuale discussione sulla distribuzione del farmaco in Italia "monca" perchè priva del parere importante di chi tutti i giorni presta la propria opera qualificata al buon funzionamento dell'intero sistema, quella del personale laureato in farmacia.
Al fine di porre rimedio a tale deficit democratico e di conoscere direttamente il parere dei colleghi impiegati senza delegare a nessuno la propria scelta, promuove una consultazione diretta allo scopo di rappresentare la volontà o meno di continuare a regolare tale rapporto di lavoro nel settore del commercio.
La motivazione con cui si chiede d'esprimere la propria volontà parte dall'assunto che qualsiasi contratto debba essere legato all'attività prevalente.
In coerenza con la richiesta di un nuovo ruolo sanitario della farmacia italiana sottopone ai colleghi dipendenti la proposta di spostare l'attuale contratto di lavoro dal settore commercio a quello sanitario equipollente per le strutture private come accade per altre figure professionali come quella dei medici.
Non si tratta di un referendum, ma l'esito e il numero delle firme raccolte avrà un forte valore "politico" nel richiedere il cambiamento dell'attuale settore d'appartenenza del contratto di lavoro.
Due sono le modalità con cui si può esprimere il proprio parere:
- ON Line attraverso la piattaforma firmiamo.it leggendo il testo della richiesta e firmando la petizione
- CARTACEA stampando il modulo allegato, facendolo girare tra i colleghi e rinviandolo, dopo opportuna scansione una volta completato. al MNLF (info@mnlf.it)

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domenica 14 novembre 2010

Il Giornale scopre le corporazioni

Questo articolo è stato scritto dopo la sospensione per tre mesi di Feltri da parte dell'Ordine dei Giornalisti
La domanda è: quanto di strumentale c'è in questo articolo che è condivisibile al 100%?

È ora di finirla con l’Ordine unico
di Carlo Lottieri

Queste strutture professionali devono farsi concorrenza e non possono mettere in discussione unilateralmente il diritto a lavorare. Si tratta di camarille ereditarie, viziate dal nepotismo e per i giornalisti usano il bavaglio

A ben guardare, nell’Italia che settant’anni fa cancellò la Camera dei deputati per sostituirla con quella dei Fasci e delle Corporazioni, gli ordini contavano assai poco. A decidere tutto erano Mussolini e i suoi, e la retorica corporativa era solo il maldestro tentativo di camuffare un regime dittatoriale, fingendo di farne il superamento di capitalismo e socialismo.


Ma quello che nel Ventennio era un progetto, oggi è una realtà, dato che siamo in larga parte prigionieri di apparati (dagli ordini dei notai a quelli dei farmacisti) determinati a difendere le loro rendite parassitarie. Anche se da più parti si ripete la tesi secondo cui saremmo vittime della globalizzazione più selvaggia, nei fatti il Paese è nelle mani di camarille ereditarie: dei figli dei figli, dei nipoti dei nipoti, i quali bloccano la strada a chi vuole lavorare onestamente e, nel caso dell’ordine dei giornalisti, giungono perfino a utilizzare il bavaglio.

Nelle società libere le cose vanno diversamente, dato che la libera iniziativa è tutelata. In una delle più antiche Costituzioni d’America, quella del Maryland, si legge che i monopoli sono «odiosi e contrari ai principi del commercio», ma larga parte della cultura anglosassone è avversa all’idea che qualcuno possa sbarrare la strada a chi vuole intraprendere, scrivere, commerciare, patrocinare e via dicendo.

Ordini e albi devono necessariamente scomparire? Non è detto. È possibile infatti che essi trovino una loro giustificazione, ma senza mettere in discussione il diritto a lavorare. Per avere ordini legittimi, in poche parole, bisogna che essi siano in concorrenza: l’associazione degli avvocati A deve competere con l’associazione degli avvocati B, certificando la qualità dei propri membri di fronte al pubblico. Le strutture corporative e monopoliste della situazione italiana, invece, rappresentano uno scandalo alla luce del sole.

Purtroppo, però, andiamo di male in peggio.

La contro-riforma delle professioni liberali che il governo sta per far approvare si muove nella direzione contraria a quella che andrebbe auspicata e gli argomenti usati da quanti difendono i privilegi di casta sono sempre i medesimi. Ad esempio, ora che si stanno per reintrodurre i minimi tariffari per gli avvocati (a danno della libertà contrattuale, ma anche a scapito degli interessi dei clienti e dei giovani avvocati), la tesi dell’ordine è che questo sia importante a «garanzia della qualità della prestazione professionale». Non ha il minimo senso, ma non fa nulla.

Al ceto dirigente italiano, d’altra parte, la libertà non piace proprio. Basti pensare che nonostante la Costituzione italiana (all’articolo 21, comma 1) dichiari espressamente che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», i vincoli e le limitazioni all’esercizio dell’attività giornalistica imposti dall’ordine dei giornalisti continuano a essere tollerati.

In questo quadro complessivo, aspettiamoci ora che perfino il ritorno della censura trovi i suoi paladini. Ci sarà di sicuro qualcuno pronto a sostenere che chiudere la bocca a Vittorio Feltri, oggi, e a qualche altro, domani, può essere un modo per proteggere la purezza dell’informazione. I liberali hanno sempre pensato che fosse il pluralismo delle voci dissonanti a garantirci al meglio, ma ormai prevale l’idea di una società organizzata dall’alto. Perché a difesa delle corporazioni non ci sono solo le rendite dei notabili di Stato, ma un’intera ideologia che punta a rafforzare il potere.

Non dimentichiamolo: siamo dominati da oligarchie che si ritengono autorizzate a tassarci e regolamentarci a loro parere. Di continuo ci dicono cosa possiamo fare a casa nostra e perfino quando vogliamo costruire una cuccia per il cane dobbiamo chiedere una «concessione». La scuola è nelle loro mani e così la previdenza, la sanità e tantissimi altri settori. In fondo, i capintesta delle corporazioni sono solo un’appendice di questo apparato e non stupiamoci se ogni tanto fanno vittime.


Gli ordini sono organizzazioni di dominio: punto e basta. Ci sarà qualcuno che, dinanzi a una situazione tanto degenerata, troverà la forza per alzare un po' la testa?

venerdì 22 ottobre 2010

Obiezione di coscienza e "captatio benevolentiae"

Potrei parlare di “captatio benevolentiae” commentando le numerose polemiche dei mesi scorsi circa la possibilità negata al farmacista di esercitare il diritto di obiezione di coscienza. Potremmo discutere sino all’infinito se si tratta veramente d’interruzione di gravidanza quando viene assunta la cosiddetta “pillola del giorno dopo” e dovremmo approfondire meglio se la spedizione di una ricetta redatta da un medico possa o meno configurarsi per il farmacista come intervento attivo.
Tuttavia, nel Movimento Nazionale Liberi Farmacisti la libertà dell’individuo è sacra, così come lo sono i suoi diritti e doveri.
Noi riteniamo che al farmacista debba essere garantito il diritto di esercitare obiezione di coscienza. Parimenti, questo diritto deve essere negato alla farmacia già detentrice di un’esclusiva e concessionaria di un rapporto privilegiato con lo Stato di monopolio. La farmacia non può rifiutarsi di consegnare farmaci come il “levonorgestrel”, pillola del giorno dopo, perché in questo modo lederebbe gravemente un altro diritto, a nostro avviso sacro: quello del paziente di ottenere il farmaco.

Due dei progetti di legge in discussione in Parlamento (De Lillo e Spadoni Urbani) rispondono a quella “captatio benevolentiae” di cui accennavo prima, entrambi riconoscono solo un diritto, quello dell’obiezione di coscienza, non risolvendo le problematiche conseguenti e rimandando le relative soluzioni alla Pubblica Amministrazione (Regioni, autorità sanitarie ecc.).
Troppo comodo.

Il terzo progetto (D’Ambrosio Lettieri) apparentemente coniuga i due diritti, quello del farmacista che vuole esercitare il diritto di obiezione di coscienza e quello del cittadino che vuole vedersi consegnato il farmaco prescritto nei tempi necessari. Nella pratica però nulla dice circa cosa potrebbe accadere durante i turni (diurni e notturni) e soprattutto ignora un fatto fondamentale: i principali episodi di rifiuto a consegnare “la pillola del giorno dopo” non sono venuti da singoli collaboratori di farmacia, ma dai titolari delle stesse.
Il disegno di legge non risolve questo aspetto semplicemente perché non può farlo: le farmacie non possono rifiutarsi di consegnare la pillola del giorno dopo.

Intervento del Presidente del MNLF Vincenzo Devito a parlamento salute (http://www.parlamentosalute.it/) sull'obiezione di coscienza - OTTOBRE 2010

lunedì 27 settembre 2010

A proposito di liberalizzazioni. Per tornare a cose concrete

Ripreso da Libertiamo.it (http://www.libertiamo.it/)
di Pierpaolo Renella

Il recente rapporto autunnale del Centro studi di Confindustria ha rilanciato il tema della libertà economica in Italia. “L’ossessione degli imprenditori per la crescita deve diventare l’ossessione di tutto il paese”, è stato lo slogan più gettonato in sede di presentazione del rapporto. E non c’é crescita senza riforme. E non c’é riforma vera che non incida sui ritardi competitivi del sistema, aggiungiamo noi.
“Le liberalizzazioni da sole aumenterebbero la produttività del 14,1%”, è uno dei messaggi più significativi dell’analisi compiuta in Viale dell’Astronomia. Senza entrare nel merito dei numeri e delle metodologie impiegate, forse varrebbe la pena di chiedersi: cosa frena i processi di liberalizzazione? Quale potrebbe essere il modello più adeguato e quali gli eventuali limiti intrinseci di un pur seria e convinta azione riformatrice sul piano della diffusione della concorrenza?

Il primo argomento è il più semplice ma ha il pregio di mettere in evidenza la potenzialità bipartizan di un tema politico come quello delle progressiva riduzione del peso dello Stato e dei vincoli-coercizioni-restrizioni nello svolgimento dell’attività economica.

Nessun soggetto politico responsabile può negare che, in un sistema in cui gli operatori economici sono liberi di competere, aumentino il PIL pro-capite e le attese di vita della popolazione; si riducano la corruzione, i pesi e costi della burocrazia e la spinta inflazionistica; e si favorisca il riequilibrio della finanza pubblica, tanto per citare solo alcuni dei principali aspetti quantitativi della libertà economica. Ma se i vantaggi sono evidenti e sostanziali, perché mai il percorso, da sempre, è tortuoso? La ragione risiede nella natura del rapporto costi-benefici. I vantaggi delle riforme ricadono su aree diffuse e indistinte di beneficiari (i consumatori, i contribuenti, le aziende), mentre i loro costi insistono su categorie ben delimitate, con rendite di posizione radicate e consolidate: gestori di servizi di pubblica utilità, burocrati, professionisti, tassisti, farmacisti, aziende monopoliste e via dicendo. Queste categorie, al solo sentir parlare di dinamiche competitive, non esitano a mobilitarsi in nome della difesa dei privilegi e spesso la loro azione di lobby paralizza la spinta riformatrice, con ricadute allarmanti sul sistema: molte aziende smettono di investire preferendo muoversi sul terreno della pressione (o della corruzione) politica.

Sul come procedere, l’evoluzione competitiva e della regolamentazione sono strettamente correlate alle caratteristiche dei settori interessati e ha poco senso arrovellarsi nella scelta tra un percorso “ripido e rapido” e un processo più soft, dove statalismo e dirigismo verrebbero “logorati” ai fianchi, senza assalti frontali. La liberalizzazione è Una, ed è efficace solo se integrale (e integrata, ad esempio, da una politica industriale al passo con i tempi).

Altro è chiedersi, in presenza di monopolio naturale, quale sia il percorso regolatore più adeguato a raggiungere risultati efficienti. O individuare gli strumenti idonei a rendere attrattivi per gli investitori privati i mercati potenzialmente concorrenziali (ad esempio, operando sulle infrastrutture o mettendo in azione la leva degli incentivi verso le tecnologie avanzate). Problemi non semplici la cui risoluzione presuppone l’esistenza di un disegno prospettico, di un master plan che vada oltre la quotidianità politica. In linea di principio, se è innegabile che le regole servano esse stesse ad evitare distorsioni della dinamica di mercato (è la ragion d’essere dell’Antitrust), va tenuto a mente che i regolatori non sono infallibili e possono talvolta burocratizzare eccessivamente e ostacolare seriamente l’attività economica.

Negli ultimi 15-20 anni, lo Stato italiano ha ceduto (secondo alcuni ha “svenduto”) quote di capitale di imprese pubbliche per circa 150 miliardi di euro, senza effetti significativi sulla riduzione del debito pubblico. In alcuni casi ha privatizzato senza liberalizzare i settori e i servizi nei quali le imprese operavano; al monopolio legale pubblico è semplicemente subentrato quello privato (vedi Autostrade), con pochi vantaggi sostanziali per i consumatori e impatto minimo sullo sviluppo economico. I risultati parziali e modesti in termini di promozione della libera concorrenza hanno indirettamente favorito il rilancio della tesi ideologica secondo cui la proprietà pubblica del capitale offrirebbe in generale maggior garanzie di efficienza, con tutto quel che ne consegue sul piano dell’agire (o del non agire) politico dei governi. I sostenitori di questa tesi dimenticano (o fingono di dimenticare) che spesso chi compra rientra nella sfera d’influenza di chi vende e, comunque, che lo stato e gli enti pubblici, anche con partecipazioni di minoranza continuano ad esercitare il controllo sulle aziende privatizzate.

E’ in atto in Italia la riproposizione del modello statalista? Qualcuno l’ha individuata, di recente, nel tentativo di ripubblicizzazione del Mediocredito Centrale. Di sicuro c’e’ una situazione di stallo che va sbloccata. Il problema è come. Se si decide di volare basso, basterebbe riaprire il dibattito sulla privatizzazione di Eni, Poste, Enel, Finmeccanica e Rai e di tante aziende municipalizzate. Un film già visto, che forse non vale il prezzo del biglietto. In caso si voglia provare a volare alto, bisognerà trovare gli strumenti più efficaci per perseguire un livello minimo di efficienza economica nei settori interessati, senza il quale è difficile ottenere gli effetti di ogni liberalizzazione che si rispetti: riduzione delle tariffe, maggior diffusione e miglioramento della qualità dei servizi e incremento degli investimenti dei privati. Si potrebbe partire proprio dal Mezzogiorno, dove oltre i tre quarti dei comuni ricorrono alla gestione in house dei servizi pubblici e dove, solo nel settore idrico, sono stimati investimenti per 60 miliardi di euro nei prossimi trent’anni.

domenica 18 luglio 2010

Fazio: il ministro più corporativo che c’è

Classe 1944 è medico laureatosi a Pisa nel 1968. Già professore ordinario di diagnostica per immagini e radioterapia presso la facoltà di Medicina e chirurgia Milano-Bicocca, è stato il primo in Europa ad aver istallato una PET (Positron Emission Tomography) all’Hammersmith Hospital di Londra.

Ingaggiato nell’ultimo Governo Berlusconi prima come sottosegretario al Lavoro, Salute e Politiche sociali, diventa Vice Ministro con delega alla salute nel maggio 2009 e quindi ministro quando il ministero è re-istituito nel dicembre 2009.

Criticato dalla Corte dei Conti per aver sottoscritto con la Novartis un contratto di fornitura di 24 milioni di dosi di vaccino a 184 milioni di euro, ritenuto troppo vantaggioso per l’azienda, non ha mai mancato di nascondere le proprie simpatie per lobby e corporazioni.

Lobby e corporazioni che all’atto della sua investitura lo avvicinano immediatamente: obiettivo porre la parola fine sulle odiate liberalizzazioni di Bersani.
Mentre in Parlamento va a rilento il disegno di legge Gasparri_Tomassini che in buona sostanza si ripromette di far chiudere le oltre 3000 parafarmacie aperte, Fazio diventa “strada alternativa”, ma privilegiata, per tentare di accorciare i tempi.

Il vecchio sistema dei tavoli di concertazione, ove tutti sono invitati e nessuno conta quanto rappresenta, è sempre buono per depotenziare i nemici. Ecco che allora Fazio convoca, con “l’ausilio” e il fraterno appoggio del Presidente della FOFI un “tavolo” sulle parafarmacie, dove, tra moniti (“Nessuno pensi di aprire da qui alla fine dell’anno tante nuove farmacie perché la legge sarà retroattiva”) e calorose “pacche sulle spalle” agli amici, viene montata la più colossale presa in giro degli ultimi anni: il riassorbimento delle parafarmacie nel servizio farmaceutico nazionale.
Cosa questo significhi tutti si guardano bene dal specificarlo, ma tant’è che chi perde il proprio tempo a guardare in cielo volar gli asini c’è sempre e qualcuno pensa ad una trasformazione delle parafarmacie in farmacie.
Non importa se tutto è inverosimile, il gioco delle parole dette e non dette, dei sussurri a mezza bocca è troppo allettante per non credere alla favola di “Corte”.

Nel frattempo il Ministro si mette al lavoro e con l’accorto appoggio dei “fantasisti” della farmaceutica s’inventa “la farmacia dei servizi”, “l’Eldorado” dei titolari di farmacia italiana, la “svolta” epocale per la sanità pubblica, la “chiave di volta” per la tutela della salute pubblica. L’idea è semplice, quanto vecchia, fare della farmacia italiana un centro di distribuzione di servizi (analisi prima istanza, prenotazione visite, consegna referti ecc.ecc.) per il S.S.N.

Un solo piccolo problema: con quali soldi?

Poco importa al Ministro se oggi più di un terzo della popolazione ha più di 65 anni e domani diventerà un quarto, poco importa d’ospedali fatiscenti, delle liste d’attesa, dei deficit cronici e dell’ingerenza sempre più pervasiva della politica.
No lui si occupa di farmacie e cravatte.

Confusione nei programmi e nelle idee, un esempio il 7 luglio è la giornata nazionale contro la contraffazione dei farmaci, in tutti i congressi si parla di regolamentare la vendita on-line e di fare attenzione al commercio. Ebbene, cosa fa il nostro ministro, di ritorno da Bruxelles ove aveva partecipato alla riunione su questo tema dei ministri della salute UE, se ne esce con un’inversione a 360° della posizione italiana, dicendosi possibilista per la vendita on-line dei farmaci d’automedicazione. Reazioni arrabbiate il giorno stesso e quello successivo, proprio mentre il Governo stava per approvare una manovra che toccava il margine delle farmacie (poi notevolmente ridimensionato) e il ministro si affretta a specificare che naturalmente solo le farmacie potranno praticare questo nuovo “business”.

Il colpo di genio però arriva nel luglio di quest’anno.
Il Ministro Alfano da vero “cavaliere” dei liberisti italiani ha intenzione di riformare gli ordini professionali, nel senso di aumentargli il potere corporativo naturalmente.

Bene il nostro Ministro non può stare a guardare: chiede agli Ordini dei medici, veterinari, farmacisti e odontoiatri di preparargli una legge delega da inserire nel progetto.
E questi lo fanno.
Risultato: gli ordini sono organi sussidiari dello Stato con autonomia patrimoniale, non più soggetti a controlli.
Niente di specifico sui sistemi elettorali per eleggere i vertici, niente sulle antidemocratiche procedure d’elezioni e sulla rappresentanza proporzionale ai voti presi.
Niente sulle regole che di fatto consentono a 4/5 ordini di eleggere i veritici.
Solo un richiamo alla rappresentanza delle minoranze organizzate. Il solito tavolo inutile per salvare la forma.

Un’ultima cosa: il ministro Tremonti sulle pensioni dopo i 40 anni ha candidamente ammesso che non si trattava affatto di refuso, ma di un vero e proprio progetto tentato dal Governo. Faccia lo stesso il ministro Fazio e dica chiaramente che non si trattava di fantasie quanto riportato nelle bozze del disegno di legge portato in consiglio dei ministri, ed ammetta che l’intenzione di bloccare le parafarmacie e le nuove aperture c’era, eccome se c’era.

Per non stare a guardare: http://www.mnlf.it/focus.php?id=20