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domenica 20 dicembre 2009

Speranza e rassegnazione

Di Fabio Romiti
La rassegnazione, dice Romano Prodi (Il Messaggero, 29/11/2009), è un sentimento che non porta a nulla perché impedisce di scorgere la realtà e le forze positive che pur esistono anche nella nostra società.
Ha ragione da vendere il professore, ma i segnali che circondano la nostra quotidianità dicono esattamente il contrario e giustificano, almeno in parte, questo “sentire” comune.
Qualche ragione ci sarà se l’Italia è al 49° posto per competitività, se il 44% dei padri architetti ha un figlio laureato in architettura e lo stesso accade per avvocati e farmacisti.
L’avrà qualche problema un Paese che prova a mettere nero su bianco con i sindacati la pratica dei “passaggi generazionali interni”, dove il padre lascia il posto al proprio figlio come accade alla Banca di Credito Cooperativo di Roma, alla Popolare di Milano, all’Enel, alle Poste e in centinaia di altre attività produttive (Il Mondo, 11/12/2009).
Qualche “dubbio” sorgerà spontaneo in una società ove la raccomandazione è considerata prassi consolidata e dirigenti pubblici, presidenti delle municipalizzate, rettori universitari, dirigenti sanitari e persino i primari degli ospedali sono scelti per appartenenza politica.
Avrà pur qualche ragione, almeno nell’intento provocatorio, il direttore generale della Luiss, Pier Luigi Celli, quando suggerisce al proprio figlio di andarsene dall’Italia a fronte di una “emorragia” continua di cervelli.
Siamo d’accordo, la rassegnazione non porta a nulla, ma come spiegarlo al precario, al ricercatore licenziato, all’operaio in cassa integrazione.
Quando intere generazioni di farmacisti, avvocati, architetti, ingegneri sentono “l’inutilità” dei propri studi, dei propri sacrifici e di quelli della propria famiglia perché il peso degli interessi corporativi li ha confinati ai margini della professione, allora è facile che la rassegnazione si faccia largo, che la speranza che qualcosa cambi venga meno.
Qualcuno, il Censis, dice che siamo una società di “replicanti”, senza illusioni, continuamente ripiegati su noi stessi, in “apnea”.
Il più grosso errore che si può fare è quello di sottovalutare questo sentimento comune, esso è assai più radicato di quanto si creda ed è forse la ragione profonda del perché buona parte dei cittadini italiani ha una visione pessimistica del proprio futuro.
Non c’è speranza in queste persone, o almeno non ve n’é la percezione.
Manca un disegno in grado di ridare fiducia, manca un progetto complessivo di società aperta alle capacità, una società che ponga tutti i cittadini nelle condizioni di cogliere qualsiasi opportunità i propri meriti e le proprie conoscenze consentano loro.
La maggioranza degli italiani è stanca di tutto ciò, è stanca del peso di lobby e corporazioni, è stanca del peso che gli interessi particolari hanno su quelli generali ed aspetta da tempo qualcuno che gli dica: questo è il nostro progetto di riforma della società, questo è il modo con cui intendiamo ridare speranza al Paese.
Non slogan, non parole d’ordine, ma obiettivi tangibili, facilmente verificabili, senza mediazioni al ribasso, senza tentennamenti dell’ultima ora.
E’ bene saperlo, i cambiamenti profondi necessitano anche di modifiche radicali, di rinunce e di scelte che immancabilmente possono creare divisioni.
C’è un prezzo da pagare e ci vuole coraggio. Coraggio nel concepire i progetti di riforma e coraggio nel dire chiaramente, una volta definita la linea, che chi non la condivide è fuori.
I referenti dei partiti non sono gli eletti, ma gli elettori.
Sono loro che attraverso il voto, determinano la condivisione delle scelte, sono loro a giudicare se la politica perseguita è quella giusta.
Non c’è solo un’onda là fuori, c’è una “marea” di persone che aspettano il proprio riscatto e chiedono di rimettere in moto quell’ascensore sociale fuori uso da troppo tempo.
Queste persone vogliono tornare ad avere speranza. Basta dare loro un motivo per averla.